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Fabrizio Grossi (Supersonic Blues Machine): “Siate fieri di essere italiani”

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Photo by Enzo Mazzeo

Un’intervista ha il potere di lasciare molto e di dare messaggi positivi in un momento in cui servono terribilmente. Fabrizio Grossi, chitarrista e italiano che vive stabilmente a Los Angeles, si è raccontato a CronacaTorino tra i progetti con la Supersonic Blues Machine e la sua Soul Garage Experience, ma ci ha fatto scoprire anche molto altro.

L’artista milanese ci ha fatto fare un viaggio negli Stati Uniti e in una cultura musicale unica, ma anche nella sua passione per il cinema e nel profondo legame tra Los Angeles e l’Italia. Un viaggio incredibile e che siamo stati davvero felici di raccontare:

Ciao Fabrizio, ci racconti la tua estate musicale?
L’estate appena trascorsa è stata una sorta di preparazione per l’anno prossimo. Con i Supersonic Blues Machine abbiamo fatto uscire il nuovo disco dopo due anni di attesa e siamo nel pieno della promozione.
Non abbiamo suonato dal vivo nell’ultimo periodo, ma siamo al lavoro per i concerti del 2023.
Sempre a livello musicale, con i miei Soul Garage Experience, è uscito il disco a settembre dell’anno scorso e sto preparando due singoli per la fine dell’anno. Ci sono poi in programma una serie di concerti nella primavera del 2023.
Sono davvero molto felice perché per il nuovo capitolo di Soul Garage Experience ho a che fare con tanta gente della mia seconda città. Io sono nato a Milano, ma quando siamo venuti negli Stati Uniti la mia prima casa è stata a New York e sono ancora molto affezionato a quella città. Lì vive anche mia figlia che sta facendo la “Circle in the Square Theatre School”.
Apprezzo molto la scena musicale newyorkese di oggi. Quando arrivai qui ero ancora troppo investito da quel rock duro che qui stava già cominciando ad andarsene, ma con il passare degli anni sono tornato ad apprezzare quei generi che mi avevano fatto avvicinare alla musica.
Sto parlando del funk e del soul, ma anche del jazz attraverso quei compositori degli anni ’60 e ’70 che univano quelle sonorità così particolari. Penso alla musica di Miles Davis e di geni come Herbie Hancock… Atmosfere, temi particolari e canzoni che hanno quasi influenze hip pop.

New York è sempre stata una città che ha fatto incontrare più culture
Esattamente, se uno conosce la geografia della città sa che c’è un polmone verde chiamato Central Park e a nord c’è la famosa Harlem. Il quartiere è a sua volta diviso in East Side e West Side. Appena sopra la West Side c’è Washington Heights che è il cuore della comunità portoricana a New York e ovviamente c’è una ricchezza culturale incredibile. Da lì sono usciti tantissimi musicisti come Pacheco e Tito Puente.
Molti compositori neri dell’epoca riuscivano a fondere i ritmi latini con il soul e il funk, ma con quell’elemento di exploring jazz che aveva portato Miles Davis.

Un qualcosa che all’inizio magari non è così facile apprezzare
Molti musicisti sono stati influenzati da quello stile. Quando abitavo io a New York e avevo lo studio con la mia band eravamo più vicino al rock e al mondo contemporaneo.
Quel genere non è che non mi interessasse, ma non era semplicemente la mia realtà in quel momento.
Ormai è da circa 20 anni che sono ritornato alle mie origini di amante del reggae di Bob Marley, Peter Tosh, UB40 e del proletarian rock di gente come i The Clash.
Noto che molti musicisti della nuova generazione newyorkese godono di questa influenza e riscoprendo anche altri fenomeni mondiali mi fa apprezzare ancora di più la città.

Parlaci di qualche personaggio coinvolto nel nuovo capitolo di Soul Garage Experience
Beh, ci sarà Tash Neal, che secondo me è uno dei chitarristi più bravi usciti dalla West Coast recentemente e ha un sound pazzesco, e poi ci sarà quel genio che è Corey Glover dei Living Colour.

Una band pazzesca
A livello personale mi sono riavvicinato molto alla band. Sono diventato molto amico di Vernon Reid e Will Calhoun è sempre stato uno dei miei batteristi preferiti. L’ho adorato dal primo ascolto di “Vivid”!
Ascoltarli è stato pazzesco, sin da subito sentivo che quella era la mia idea di musica. Ho sempre avuto bisogno di quel groove e della presenza del funk dal punto di vista ritmico.
In giro per il mondo, secondo me, non è mai realmente stata apprezzata la conoscenza musicale di quei quattro mostri. Prima con Muzz Skillings  e poi con quel fenomeno di Doug Wimbish.
Conoscere e lavorare con questi personaggi mi ha portato uno scompiglio, ma in senso buono… Tanto quanto è stato il conoscere Steve Vai.

Raccontaci di Steve Vai
Quando ho lavorato con Steve nel 1996 ed è iniziata un’amicizia trentennale lo consideravo come il miglior chitarrista al mondo. Non avevo mai sentito suonare uno così!
Mi ricordo che quando vivevo a Milano il modo con cui ti facevi una cultura musicale era andare da Mariposa e ascoltare le novità. Praticamente siamo passati dai chitarristi di band come Deep Purple e Blue Öyster Cult con un background blues e poi Eddie Van Halen ha sconvolto qualsiasi cosa. Dopo di lui è arrivato un altro “mostro” come Rhandy Rhodes che univa un patrimonio classico a quello rock che andava in quel periodo.
La prima volta che ascoltai Steve fu grazie a un disco di quelli flessibili con Guitar Magazine che potevi comprare in un posto vicino al Duomo di Milano. Il pezzo era “Attitude Song” e dopo una settimana sono dovuto andare a comprarne una nuova copia… Io e i miei amici l’avevamo consumato!
Quando sono arrivato a Los Angeles per me Steve Vai era il Dio della chitarra e, anche sapendo il suo patrimonio musicale, non ero mai andato oltre la chitarra. Lavorando con lui e producendo dei tour son riuscito a comprendere il genio e la musicalità dietro. Un qualcosa che spesso alla gente non arriva del tutto.

Tornando alla tua estate. Ci sono altri lavori?
Sto continuando il mio lavoro come produttore di artisti indipendenti e mi sto dedicando anche all’altra mia passione: la cinematografia. Abbiamo già prodotto due documentari musicali. “Sideman”, per esempio, ha ricevuto tantissimi premi ed è la storia di tre musicisti fondamentali del mondo blues che però non avevano le luci addosso. Gente senza cui oggi non ci sarebbe questo sound meraviglioso.
In più ho la mia compagna di produzione video con cui facciamo un sacco di cose soprattutto per la Comunità Italiana di Los Angeles.
Lo dico per chi non lo sapesse, a LA penso ci sia la Comunità che è esplosa maggiormente a livello creativo. L’Italia qui non è una novità soprattutto nel cinema. La prima star, se ci pensate, è stato Rodolfo Valentino nel 1914.
Un’altra storia incredibile: la prima colonna sonora per un film muto era stata composta da Mascagni.
C’è questo rapporto incredibile tra Italia e Los Angeles. La Dolcevita qui ha creato dei miti assoluto e Quentin Tarantino o Robert Rodriguez non esisterebbero senza una certa scuola di cinema italiano.
La stessa città ha visto evolvere la sua italianità. Oggi trovi realtà molto più italiane al corrente di quello che succede in Italia. Stiamo creando davvero tante belle cose e anche nel mio lavoro trovo sempre più italiani.
Ho lanciato questa organizzazione chiamata “Patio” con il Console italiano con l’obiettivo di creare una festa per far incontrare una volta l’anno gli italiani che lavorano nello spettacolo. Ci sarà un grosso galà il 3 novembre dove onoreremo quelle persone che favoriscono lo scambio culturale tra Italia e Stati Uniti.

Con Supersonic Blues Machine avete un grande successo in Italia. Sapete già se il vostro tour vi porterà qui da noi?
A livello di trattative e interesse chiaramente è un sì. Io ci spero davvero molto, abbiamo tantissimi fans di cui sono diventato anche amico. Da produttore cerco davvero di rispondere a tutti quelli che mi scrivono… Credo molto nel tenere la porta aperta e noto un grande interesse con grande sincerità. Spero davvero di concludere queste proposte sia con Supersonic che con Garage.

Da italiano che vive la realtà musicale degli Stati Uniti. Cosa ne pensi del successo dei Måneskin?
Sono contentissimo del loro successo. Uno dei motivi per cui me ne sono andato dall’Italia è stato per fare la musica che volevo. Non era un problema di lavoro, anzi quello non mancava mai.
C’è sempre stato, non da parte tutti, quello spirito di dover per forza cercare l’errore per andare in giro a parlar male di altri. Un qualcosa che qui negli Stati Uniti, per esempio, è una cosa che non esiste.
Noto che c’è un certo spocchiosismo nei confronti di questi ragazzi. Parlandoti da persona che ha maggiormente a che fare con il mondo anglosassone posso dirti che sono loro quelli che hanno il rock.
Fino al successo dei Måneskin non c’erano band in giro che facevano rock. Avevi tanti artisti con un genere non ben definito e che alla fine ti lasciavano poco.
Questi ragazzi hanno fatto una gavetta, hanno creato il loro sound e poi c’è un cantante che canta nel suo genere. Finalmente non il solito italiano che fa sentire la bella voce, che è un talento e va apprezzato, ma cavoli è bello vedere qualcosa di diverso.
I Måneskin hanno preso il mondo americano con un impatto pazzesco e hanno “dato il permesso” ad altri musicisti rock di essere presi sul serio. Parlando con un manager qui mi diceva che era proprio grazie all’Italia se il rock era salvo.
L’evento che hanno fatto qui a Los Angeles ha fatto sold out dopo una settimana! Un qualcosa di assolutamente pazzesco per la realtà di questa città.
Dico ai lettori: andatene davvero fieri di questi ragazzi!

Tornando alla tua musica: con chi ti piacerebbe collaborare?
Ho due collaborazioni che sogno e che sono agli antipodi: U2 e Lenny Kravitz. Devo dirti però che nei miei dieci dischi preferiti ultimamente ci sono anche tante voci femminili. Una è Meshell Ndegeocello, una Erykah Badu e poi c’è Alanis Morissette. Le prime due, secondo me, sono lo stato più elevato del nirvana musicale in grado di combinare lo stile di Miles Davis con elementi soul/funk che mi stanno a cuore. Hanno una sensibilità poi letterale e politica molto vicina alla mia. Non mi vedrai mai scrivere una canzone d’amore, ma comunque ci sono arrangiamenti pazzeschi e mi fanno sentire vicino a quel mondo.
Gli U2 sono importanti per me, questo perché gli irlandesi come gli italiani hanno un certo tipo di sensibilità culturale e dei valori della famiglia. Bono e i suoi, nonostante siamo sempre al corrente con i nuovi trend, hanno sempre la loro base e si sono fatti apprezzare qui in America con la loro musica. Avere la possibilità di far qualcosa con loro è un sogno che ho da quando ascoltai “The Joshua Tree”.
Lenny Kravitz rappresenta, invece, musicalmente quello che sento io. Lenny è cresciuto, come me, con il blues e il soul. In Italia ricordo che alla radio passavano musica italiana degli anni ’50 e ’60, ma anche tanto soul e tanto R&B.
Ricordo la prima volta che vidi James Brown in tv, ero a dir poco scioccato per la presa che aveva fatto su di me e io volevo vederlo sempre! Un sabato arrivò Tina Turner, immaginati…
Sono cresciuto con quel tipo di suono da cui anche lui è stato molto influenzato e poi mi piace il personaggio. Si avvicina a tante cause e mostra sempre una grandissima sensibilità. Sarei la persona più felice del mondo ci fosse la possibilità di far qualcosa insieme.

Il sogno nel cassetto di Fabrizio Grossi?
Poter scrivere, dirigere e produttore un film. Ho avuto la possibilità di conoscere in un ristorante Quentin Tarantino.

Raccontaci
Ero andato una sera con Steve Vai in questo ristorante durante le registrazioni che stavamo facendo. La clientela qui era sempre molto particolare: potevi trovarci Mick Jagger e gente di questo tipo. Anche perché dopo una certa ora era l’unico aperto!
Ero lì con degli amici e era il compleanno penso proprio di Robert Rodriguez. Iniziai a parlare con quest uomo e dal legame italiano iniziammo a chiacchierare. Di Tarantino mi piace molto come tratta l’immagine e poi scrive da solo la sua musica.
Ho un paio di storie che vorrei sviluppare molto autobiografiche, ma più in generale mi sto addentrando sempre di più nello scrivere e nell’editing… Mi piacerebbe essere in grado di fare un film con musiche, scrittura e tutto il resto.

Ultima domanda: il tuo messaggio ai lettori italiani
Grazie del supporto mostrato in tutti questi anni. Tutto questo permette a me di fare quello che faccio! Il messaggio è di non sottovalutarsi perché non siete nati a New York o Londra… Non ci sono più certe barriere, fate quello che volete! Alla fine è musica, è una comunicazione ed è uno sfogo.
Non stiamo risolvendo i grandi problemi del mondo, ma parliamo di musica. Prendete in mano lo strumento e suonate. Non pensate troppo, siate convinti e siate orgogliosi di essere italiani. Abbiate coraggio e fatelo!
(Alessandro Gazzera)
Foto by: Enzo Mazzeo

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